Da chi è vicino alla morte, o sta fronteggiando una malattia difficile, c’è una cosa che possiamo imparare: a non sprecare il tempo a nostra disposizione e a vivere la vita pienamente, sfruttando ogni secondo che ci è concesso.
Il rimpianto più comune che accomuna tutte le persone vicine alla morte è infatti di aver sprecato il tempo a disposizione, di non aver vissuto appieno la vita, perdendo attimi preziosi.
«Se potessi tornare indietro e rivivere tutto, sapendo quanto velocemente passa il tempo, avrei assaporato ogni attimo, assaggiato ogni delizioso boccone».
Che cosa fareste se vi mancassero cento giorni prima di morire? Da questa domanda prende spunto Fausto Brizzi nel scrivere la storia di Lucio Battistini, protagonista del romanzo Cento giorni di felicità.
Quali caratteristiche dovrebbe avere la morte per essere una “Buona Morte”? Ne parliamo grazie a uno studio americano che ha analizzato i desideri dei malati terminali.
La ricerca ha infatti rielaborato le testimonianze di pazienti terminali, familiari e operatori sanitari insieme a 36 differenti studi sul tema della morte e del morire.
All’interno della proposta formativa della neonata Scuola Capitale Sociale, ci preme segnalare il percorso Tanatologico, con corsi ideati appositamente per approfondire i temi legati al lutto, al morire e alla morte.
Destinati sia agli operatori (sanitari, funebri, volontari) sia ai cittadini interessati, i corsi sono attualmente in via di creazione, ma possiamo già anticiparvi alcuni degli argomenti che saranno trattati:
“Vorrei aver vissuto la vita a modo mio, non come gli altri si aspettavano la dovessi vivere”. È questo il rimpianto più comune, quello che affligge la maggioranza delle persone alla fine della propria vita.
Ne parla Bronnie Ware nel suo libro Vorrei averlo fatto, in cui individua i cinque rimpianti più comuni tra chi si trova ad affrontare la fine imminente della propria vita o di quella di un proprio caro.
Think Ahead – letteralmente Pensa in anticipo – è il nome del progetto della Irish Hospice Foundation nato per aiutare i membri del personale a discutere e a registrare i desideri dei pazienti in caso di emergenza, malattia grave o morte, cosicché tutto sia pronto all’aggravarsi della malattia o al momento della morte.
Ma il progetto non è rimasto tra le pareti dell’hospice…
«Parlare apertamente della morte ha alleviato molte delle ansie dei miei studenti, insieme alle mie. Studiare i modi in cui altre culture affrontano la fine della vita ci ha permesso di vedere che esiste una varietà di possibili risposte alla fragilità e alla finitudine umana, e ci ha aiutato a riconoscere che la morte è parte integrante della vita. E questa è una buona lezione per tutti noi».
Con queste parole, la Prof.ssa Anita Hannig, docente alla Brandeis University (Massachusetts, USA), sintetizza l’esperienza vissuta durante l’insegnamento al corso “Antropologia del morire e della morte”, che lei stessa ha fondato nel 2016.