Il punto sul testamento biologico

LA DICHIARAZIONE ANTICIPATA di trattamento permette di mettere nero su bianco le proprie volontà in caso di malattie o lesioni traumatiche irreversibili. E mentre arriva la sentenza del Consiglio di Stato che stabilisce che Eluana Englaro aveva diritto di morire in Lombardia (la Regione si rifiutò di attuare la sospensione delle terapie alla donna in stato vegetativo da 18 anni, che fu quindi trasferita in una clinica del Friuli per sospendere trattamento e sondino), si riapre il dibattito sul testamento biologico e sul diritto  a decidere del proprio fine vita.

IL CASO ENGLARO – Come accennato, all’epoca dei fatti (era il 2009), Eluana Englaro si trovava in stato vegetativo da diciassette anni, come conseguenza di un incidente stradale. La famiglia, al richiedere l’interruzione della alimentazione  e idratazione forzate  – anche sulla base delle  ricostruite volontà della ragazza, che in vita aveva espresso un pensiero chiaro sulla questione (commentando la vicenda di un amico, dichiarava che avrebbe preferito morire piuttosto che essere, priva di coscienza, dipendente dalle cure di altri, ndr) –  aveva aperto la strada a un lungo dibattito medico, politico, oltre che civile, che aveva infine portato, dopo un lungo iter giudiziario, alla autorizzazione alla sospensione del trattamento da parte della Corte di Cassazione.

LA SENTENZA – Ora la recente sentenza del Consiglio di Stato che dichiara illegittimo il rifiuto della regione Lombardia a mettere a disposizione una struttura per il distacco del sondino naso-gastrico che alimentava e idratava artificialmente Eluana. Sentenza che così, tra l’altro, afferma:  “Nessuna visione della malattia e della salute, nessuna concezione della sofferenza e, correlativamente, della cura, per quanto moralmente elevata o scientificamente accettata, può essere contrapposta o, addirittura, sovrapposta e comunque legittimamente opposta dallo Stato o dall’amministrazione sanitaria o da qualsivoglia altro soggetto pubblico o privato, in un ordinamento che ha nel principio personalistico il suo fondamento, alla cognizione che della propria sofferenza e, correlativamente, della propria cura ha il singolo malato.

(…) Non può dunque l’Amministrazione sanitaria sottrarsi al suo obbligo di curare il malato e di accettarne il ricovero, anche di quello che rifiuti un determinato trattamento sanitario nella consapevolezza della certa conseguente morte, adducendo una propria ed autoritativa visione della cura o della prestazione sanitaria che, in termini di necessaria beneficialità, contempli e consenta solo la prosecuzione della vita e non, invece, l’accettazione della morte da parte del consapevole paziente”. 

(…)

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